3.3.06

Onu, le missioni della vergogna

Quando, due anni fa, i primi casi di abusi sessuali dei caschi blu in Congo vennero alla luce, al Palazzo di Vetro non si sarebbero certo aspettati che quanto emerso fosse solo la punta dell’iceberg. Da quel giorno le missioni di pace nel mondo sono nell’occhio del ciclone, a causa delle 259 accuse di stupro presentate contro il personale delle Nazioni Unite di mezzo mondo. Finalmente, a New York hanno deciso di darsi una mossa.

Abusi diffusi. A lanciare l’allarme la scorsa settimana è stato Jean-Marie Guehénno, capo delle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. A due anni di distanza dalla scoperta dei primi casi, infatti, il fenomeno è lungi dall’esser stato debellato ed è più diffuso di quanto previsto, avendo investito i caschi blu delle missioni in Kosovo, Liberia, Sierra Leone, Guinea, Congo e Burundi. Tra pochi mesi poi l’Onu sarà chiamata a prendere dall’Unione Africana le consegne della missione di pace in Darfur, che conta 7 mila uomini, e al Palazzo di Vetro si sta tentando di non fare l’ennesima magra figura. Anche perché da New York bisogna rendere conto ai Paesi che ogni anno stanziano i 5 miliardi di dollari necessari a mantenere uno staff di 85 mila dipendenti in 18 missioni di pace in tutto il mondo.

Il caso Monuc. Nell’occhio del ciclone è soprattutto la Monuc, la missione Onu in Congo. In un paese martoriato da cinque anni di guerra civile infatti i caschi blu hanno dato il peggio di loro, secondo le testimonianze delle presunte vittime. Si va dal “semplice” favoreggiamento della prostituzione, fino alla pedofilia: sembra fosse piuttosto diffusa la pratica di costringere bambini affamati ad avere rapporti sessuali con i caschi blu, in cambio di razioni alimentari supplementari. Pratiche aberranti, aggravate anche dal fatto che vengono compiute su popolazioni già provate da anni di guerre e violenze. Ma come risolvere un problema che mina alla base la credibilità dell’Onu nel mondo?

Cultura sbagliata. Al Palazzo di Vetro è stato ideato un piano che dovrebbe portare alla fine totale degli abusi in non meno di tre anni. Guehénno ha posto l’accento soprattutto sulla necessità di estirpare la “cultura della minimizzazione”, che per troppo tempo ha ritenuto quelli compiuti dai peacekeepers peccati veniali. Il piano prevede un migliore addestramento delle truppe, un programma di risarcimento e recupero per le vittime degli abusi, oltre che una politica di “non fraternizzazione” con i locali, come quella applicata in Congo dopo la scoperta degli abusi.

Contraddizioni. Saranno misure sufficienti? Il problema, indipendentemente dalla bontà di queste riforme, è che a monte non risolvono il problema fondamentale: i caschi blu operano infatti in situazioni di emergenza, in territori che l’autorità statale non riesce a controllare. Questo fa sì che le missioni Onu siano autoreferenziali, perché non hanno nessuno che possa controllarne l’operato. Un problema aggravato dal fatto che solo il personale civile è sottoposto al controllo delle Nazioni Unite. I contingenti militari rispondono direttamente al loro paese d’origine. Ora, negli anni passati i caschi blu sono stati più volte “graziati” per la scarsa volontà politica dei loro stati di risolvere il problema, tanto che due anni fa fece scalpore (in positivo) la decisione del Marocco di processare sei peacekeepers, impiegati in Congo, per crimini sessuali.

Vantaggi economici. Un altro problema da tenere a mente è di natura principalmente economica: l’arrivo dei caschi blu nelle zone di guerra porta soldi e crea un minimo di circolo virtuoso per le spesso disastrate economie locali. Fiorisce così la prostituzione, forse la prima “attività economica” che segue l’arrivo dei peacekeepers e che non può certo venire estirpata con qualche circolare di protesta redatta da New York. Come risolvere queste contraddizioni? PeaceReporter ha più volte provato a contattare l’ufficio stampa delle Nazioni Unite, ma invano. Sarà per la prossima volta, sperando che non sia troppo tardi.

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